Karl Ove Knausgård è uno degli scrittori che più mi hanno impressionato negli ultimi anni, ne ho parlato spesso anche al podcast.
Di seguito un breve saggio che ho scritto dopo essere stato in Norvegia su alcuni dei luoghi della serie “La mia battaglia” (Feltrinelli).
Il Café Opera è un bar poco lontano dal Teatro Nazionale e dalla statua di Henrik Ibsen nel centro di Bergen, in Norvegia. Tavolini alla buona con uno stile déco appena accennato, avventori in pantaloncini corti e calzini bianchi, pochi metri quadrati in tutto. Nelle pagine di “La pioggia deve cadere” di Karl Ove Knausgård (il 5° volume della serie Mi Kamp, in italiano “La mia lotta”) questo modesto locale è luogo quasi mitico, il crocevia delle tensioni emotive e delle riflessioni intellettuali del giovane autore, allora appena ammesso all’accademia di scrittura. Durante un viaggio in Svezia e in Norvegia ho visitato alcuni dei luoghi dei romanzi del ciclo e sui voli, sui traghetti e nelle case in affitto con cui mi spostavo ho provato più volte ad alternare le pagine degli ultimi due volumi di Mi Kamp alla lettura di altri libri che avevo portato con me – opere con una solida struttura tradizionale e buoni congegni narrativi. Inevitabilmente questi ultimi tornavano in fretta nella borsa e mi immergevo di nuovo nello sterminato flusso di dettagli, dialoghi, ricordi e problemi ricorrenti dello scrittore norvegese. In altri termini, per tutto il tempo in cui ho letto Knausgård gli altri romanzi non hanno avuto speranze: sembravano finti e artefatti come mai mi erano sembrati prima di allora.
L’apparente contraddizione del piccolo e inadeguato Café Opera si spiega con il fatto che il locale de la “La pioggia deve cadere” era quello che vedevano gli occhi del protagonista, un diciannovenne di provincia appena sbarcato nella grande città. Il realismo assoluto in arte è un’illusione, una terra a cui non si arriva mai, ma ci sono modi diversi di tendere alla realtà, modi che corrispondono a rese diverse e la poetica di Knausgård è mimetica ed evocativa, non documentaria, ammesso che sia possibile un realismo davvero documentario.
Ciò che appare reale e autentico in Knausgård non è tanto il mondo, quanto il modo di guardare ad esso. Nello sguardo di Knausgård ci sentiamo a casa, ci risulta istintivamente umano e fratello perché prima di ogni altra cosa non teme l’indicibile: lo sforzo verso la trasparenza di Knausgård personaggio letterario è assoluto e il magnetismo delle pagine (4.137 nella mia edizione) de La mia lotta deriva in buona parte da questo. Ai tempi del suo successo globale alcuni giornalisti lo definirono come lo “scrittore dell’epoca dei blog” o “della generazioni dei selfie”, etichette che non segnalano molto più dell’incompetenza letteraria di chi le ha coniate; un po’ più vicina alla realtà invece era quella di Proust norvegese.
In Knausgård abbondano descrizioni apparentemente prive di uno scopo immediato ma anche numerose ellissi: in alcuni volumi del ciclo una manciata di lunghissime scene rappresentano un’intera epoca della vita dell’autore. Fra le ragioni costitutive del ciclo di romanzi c’è il rifiuto radicale delle forme più ovvie e meccaniche dalla narrazione contemporanea, quegli stilemi e quelle tecniche che si affermano sempre di più non solo nelle serie tv ma anche nei romanzi, nelle pubblicità, nella politica, nel marketing e in generale in quella liturgia insincera – colma di sempre nuove indicibilità e mere menzogne – che è la comunicazione contemporanea.
I meccanismi li conosciamo ormai tutti, consciamente o inconsciamente: l’happy ending, i personaggi che sintetizzano in maniera coerente determinati tratti sociali, le catarsi a buon mercato, le posizioni morali didascaliche e le inevitabili ricomposizioni. Dispositivi che nel tentativo di raccontare la realtà finiscono per nasconderla dietro uno schermo dove diventa irraggiungibile. Tutto ciò è felicemente assente dalla scrittura di Knausgård. Questo però non significa che i romanzi del ciclo non siano a tutti gli effetti dei romanzi, non abbiano un capo e una coda, per così dire, né che la destrutturazione delle forme sia così radicale da farle scomparire del tutto, così come non significa che cessino di esistere i nessi causali o l’unità complessiva del tempo della narrazione.
Knausgård è molto lontano dall’avanguardia fine a sé stessa, cerca piuttosto una chiave nuova e personale per coniugare la letteratura con l’epoca storica. Gli archetipi si sporcano dell’imperfezione della vita, il tempo si arricchisce di piani, gli stessi problemi ritornano più volte (l’alcolismo del protagonista, ad esempio), talvolta si presentano in successioni anomale e non cinematografiche (il problema grande prima del piccolo), così come i temi non sempre si offrono a risoluzioni ovvie e definitive. Il tutto tenuto per l’appunto assieme dal minimo comune denominatore di un narratore che pur cambiando rimane sempre caratterizzato da una sincerità così radicale – soprattutto nei confronti di sé stesso – da apparire oltraggiosa, immorale, sicuramente sfacciata, in particolar modo nel contesto della cultura scandinava, caratterizzata da quelle rigidissime norme di conformismo sociale che vengono comunemente sintetizzate sotto la “Legge di Jante” (tanto per capirsi una delle regole è “Non credere di essere qualcosa di speciale”, un’altra “Non credere che a qualcuno importi di te.”).
In questo quadro, il mandato occidentale alla felicità individuale si scontra con questioni che paiono irrisolvibili; nel tempo al massimo mutano pelle, mostrano nuovi lati prima nascosti alla vista, diventano forse persino tollerabili, ma non smettono mai di vivere in noi, ci si potrebbe spingere a dire che sono noi più di qualsiasi altra cosa. Anche da morto il padre di Knausgård, continua ad esercitare un ruolo centrale nella vita dello scrittore, la relazione con Linda, la madre dei suoi figli, una donna con gravi problemi psichiatrici, ricade continuamente negli stessi, asfissianti, vicoli ciechi. Nonostante questo le epoche si concludono, la vita scorre inesorabile verso la sua conclusione, qualche sorta di cambiamento è possibile ma non corrisponde quasi mai alle forme e ai modi della nostra volontà.
L’apertura a un senso complessivo in Knausgård è sempre questione di un momento, è il dono inaspettato di un cambio di luce sul paesaggio, di un frammento di dialogo, dello sguardo di un figlio, della conclusione di una lunga scena o dell’immergersi, sorprendentemente senza scossoni, dei romanzi del ciclo in una delle tante riflessioni teoriche che li puntellano. Knausgård sostiene esplicitamente un’idea della letteratura come arte che distorce il mondo per permetterci di vederlo meglio. Alternando azioni rilevanti e pensieri profondi alle carte di credito che pagano conti, ai pulsanti di ascensori premuti per portare al piano e ad altri particolari minimi, quello che lo scrittore prova ad evocare è il sublime.
Non sempre il mistero si compie, qua e là nelle quattromila pagine appare anche qualche momento kitsch o afflitto da eccessivo patetismo, ma tutto sommato si tratta di pochissime occasioni, specie se si pensa alla rapidità con cui i sei libri sono stati scritti – un po’ come se si trattasse di una performance artistica –, in quest’ottica colpisce quante le volte la magia riesca invece molto bene. C’è un solo punto del ciclo in cui si vede cosa può diventare la scrittura di Knausgård quando viene lucidata a lungo: le cinque pagine iniziali de “La morte del padre”, il primo volume. Sono pagine splendide, da scrittore di razza, ma sono anche le più fredde di tutto il ciclo. Knausgård le ha scritte per sbloccarsi e per dare un saggio delle sue abilità letterarie, dà li in poi parte un flusso di coscienza meno levigato che attraversa le epoche, le identità e le forme della coscienza.
La memoria diventa l’unica identità possibile e l’apparente spontaneismo della forma letteraria – frutto in realtà di anni di ricerca precedente, introiettati alla maniera automatica del gesto sportivo, del colpo nella lotta – finisce per permettere l’accesso ad una dimensione ineffabile che altrimenti ci sfuggirebbe. Knausgård è in un certo senso un tardo esponente di una lunga tradizione di romantici, un romantico scandinavo secolarizzato e sempre alla ricerca di qualcosa di cui invece il sociale sembra aver smesso di sentire il bisogno, convinto com’è che ogni questione umana si possa risolvere con un regolamento più corretto o una maggiore redistribuzione fiscale. Che Dostoevskij sia diventato un autore amato solo dagli adolescenti la dice lunga sul nostro tempo, sostiene Knausgård.
Il confronto con grandi artisti di altre epoche attraversa tutte le pagine de La mia lotta, confronti ambiziosi che forse uno scrittore dell’europea continentale non si sarebbe concesso ma che finiscono per rinforzare la solidità d’impianto di un autore che arriva da quelli che fino a poco tempo fa erano i margini estremi del mondo culturale, lì dove un certo grado di innocenza permette ancora di vedere il quadro più ampio, di non morire di irrilevanza, di dettaglio slegato dall’insieme. A Edward Munch, ad esempio, Knausgård ha dedicato un intero libro, intitolato “Così tanto desiderio in così poco spazio” ancora non tradotto in italiano, un testo dove parlando di un altro artista Knausgård parla per sua stessa ammissione lungamente di sé e della sua idea di letteratura. Fra le molte assonanze fra Munch e Knausgård c’è precisamente questa vena romantica che trascende il romanticismo e trasporta quel senso di mancanza per il sublime in un mondo dove ormai anche questa richiesta disattesa è diventata un oggetto del tutto estraneo, inspiegabile.
Al museo KODE di Bergen è esposto “Sera sul viale Karl Johan” un quadro di Munch del 1892 che ritrae dei passanti su un viale centrale di Oslo. La voragine scavata nei loro volti abbozzati risuona con la parte dell’opera di Knausgård che racconta il profondo e istintivo disagio per il sociale inteso come luogo dell’equivoco, della convenzione, della perenne inadeguatezza, della vergogna. Il legame fra le 400 pagine di saggio sul giovane Hitler inserite in Fine – l’ultimo volume del ciclo – e la vita di Knausgård è al tempo stesso chiaro e sfuggente ma ha senz’altro a che fare con questo profondo disagio per il sociale.
Certo, in quel saggio nascosto dentro il libro c’è anche il desiderio di raccontare Hitler non come un accidente irripetibile della storia ma come un’oscura potenzialità dormiente nell’essere umano, quello che più conta però è lasciare intuire un possibile parallelo tra lo schiacciamento del “sociale” ai danni del personaggio di Knausgård – e in più in generale ai danni dell’uomo moderno – e ciò a cui viene sottoposto il giovane Hitler nella lunghissima serie di insuccessi che contraddistingue la sua gioventù. La differenza più grande è che Hitler finisce per esternalizzare tutte le responsabilità fino a giungere alla follia e alla distruzione assoluta, Knausgård invece le interiorizza in un narcisismo della vergogna e dell’inadeguatezza.
Una chiave per provare a dare un ordine ai sei romanzi di Knausgård è proprio questo continuo movimento di contrazione (sociale) e contro-espansione (individuale) che attraversa tutta la vita di Knausgård personaggio letterario. Una pulsazione infinita che può essere individuata come il cuore della lotta del titolo. In maniera rilevante tutto questo sempre rinnovato muoversi fra tesi e antitesi, questo movimento di schiacciamento ai danni dell’individuo non prende però mai la dimensione della politica ma è sempre incarnato da persone specifiche e, come detto, dalle inadeguatezze del protagonista stesso. Durante la vita dell’autore la Norvegia diventa un paese ricchissimo grazie al petrolio, ma queste e altre specificità della storia nazionale non appaiono praticamente mai nelle pagine de La mia lotta. Le uniche, rarissime, pagine di critica politica riguardano il sistema del politicamente corretto svedese ma questo principalmente perché Knausgård lo avverte come estrema una liturgia del falso, un ostacolo fra l’uomo e i possibili momenti di verità riguardo la sua condizione.
Molto è stato scritto a livello giornalistico sulla presupposta immoralità del personaggio Knausgård così come appare nelle pagine del ciclo, ma oltre a porre la questione letteraria su dei binari sbagliati (quelli morali), questo genere di argomento non coglie il fatto che pressoché tutta la moralità di Knausgård ruota attorno alla fedeltà quasi maniacale ad una concezione estrema dell’arte, al fare, cioè, le cose davvero sul serio. È in questo che si sostanzia tutta la sua intransigenza.
Munch è ricordato principalmente per “L’urlo” – quadro che ha alcune similitudini con “Sera sul viale Karl Johan - ma fu, proprio come Knausgård, un autore eccezionalmente prolifico tanto da lasciare più di 1000 quadri, molti dei quali sono in realtà gioiosi e sereni, lontanissimi dall’idea che la maggior parte del pubblico ha di lui. L’opera si distende cioè fino a coprire le diverse manifestazioni del mondo e della vita. In questo senso neppure lo sterminato ciclo de La mia lotta – che pure già contiene in sé molti opposti – spiega tutto Knausgård. Non potrebbe.
Oggi lo scrittore parla del ciclo come di un’opera incominciata nel pieno di una crisi di mezz’età, quando la sua promettente carriera sembrava in procinto di andare in pezzi, era incastrato in rapporto emotivo senza futuro e i suoi figli piccoli richiedevano continue attenzioni. Molto diverso è il Knausgård baciato e al tempo stesso maledetto dal successo globale di cui si può leggere nel ciclo successivo delle “quattro stagioni”, un ciclo dove nonostante i problemi continuino a non mancare nella sua vita, lo sguardo assomiglia più a quello del saggio che guardando la foresta vede sia le foglie che gli alberi, il distacco è maggiore, la pacificazione non sembra più impossibile e la scrittura alterna brani di diario a piccoli saggi dal tono scientifico o analitico, con alcune vette preziose come la manciata di pagine dedicate alla segreta vergogna che sempre accompagna l’intelligenza nella società democratica contemporanea.
Il moto di schiacciamento ed espansione pare rallentato o comunque più sopportabile, le critiche morali non scalfiscono quello che è comunque è stato un successo letterario globale fra i più rilevanti degli ultimi anni, un successo che per un autore che ha sempre messo l’essere uno scrittore al centro profondo della sua identità non può essere stato senza conseguenze, così come non può essere senza conseguenze nella lotta di Knausgård l’essere riuscito a diventare un pienamente un borghese, un obbiettivo assieme desiderato e temuto.
A queste condizioni Knausgård parrebbe finalmente intenzionate ad arrendersi e accettare il suo status, qualche indicazione a proposito ce la dà ancora una volta parlando di altri, ovvero nella recensione che ha scritto per il New York Times a proposito di “Sottomissione” di Michel Houellebecq, uno scrittore che per molti versi è la sua esatta immagine negativa. Partendo dalla stessa sensazione di vuoto il francese sottrae, il norvegese aggiunge, l’uno sa usare l’ironia, l’altro si prende quasi sempre molto sul serio. Due polarità opposte che rappresentano quanto di meglio sappia offrire la letteratura della nostra epoca.
Parlando delle riflessioni su Hitler contenute in Fine, Knausgård oggi dice di non riconoscersi più in esse, gli sembrano un tunnel dentro la coscienza di un altro. Più dell’alternanza fra compressione ed espansione e della ricerca del sublime è forse questo tentativo, a tratti sorprendentemente difficile, di delineare una continuità della coscienza umana dentro il flusso multiforme dei ricordi a emergere come il vero scopo ultimo di tutta l’opera di Knausgård. Cosa siamo se non una intima e segreta sequenza d’immagini, emozioni e scelte? Che l’ultimo dei romantici finisca per guardare con interesse alla scienza non desta quindi troppo stupore.
(Bergen. tutte le foto sono di Daniele Rielli© - diritti riservati)
Questo pezzo è uscito originariamente su Domani il 21.09.21.
Trovi il link ai libri di Knausgård nei miei consigli di lettura
A presto
Daniele