Tre anni fa scrissi un intervento intitolato “Il Re woke” per la raccolta pubblicata da Utet “Non si può più dire niente?”. In quelle pagine sostenevo che il wokismo fosse sostanzialmente una setta religiosa nichilista che affondava le sue radici nella propensione umana al tribalismo morale, da qui la sua intolleranza per la diversità di opinioni, per la comicità e per l’arte.
Concludevo però con una nota positiva, scrivendo che l’apparato di censura e cancellazione creato dall’ideologia woke e implementato delle multinazionali tech e media, fosse in realtà un re nudo. Come nella favola aspettavamo il bambino che dicesse quello che tutti vedevano ma nessuno aveva il coraggio di denunciare per paura di perdere il lavoro o di venire emarginato socialmente.
Oggi il vento è cambiato. C’è ancora molta strada da fare ma il bambino sta trovando la forza di parlare dentro un numero sempre crescente di persone. E questo non può che essere positivo. Qui di seguito trovate il piccolo saggio del 2022, sentivi liberi di condividerlo con chi volete.
Il re woke
di Daniele Rielli
(apparso originariamente in “Non si può più dire niente?” Utet, 2022)
Il Moderna Museet è un museo di arte contemporanea che sorge su una placida isoletta del centro di Stoccolma: nel suo genere, è una delle istituzioni più importanti del mondo. Visitarlo è un’esperienza per molti versi illuminante: le opere del primo Novecento fino a quelle degli anni settanta circa (non ha senso qui essere fiscali anche perché il cambiamento non si svolge solo nel tempo ma anche nello spazio e le dimensioni sfumano l’una nell’altra) portano ancora con sé la forza di chi sta destrutturando qualcosa di esistente, in crisi forse, anzi senz’altro, ma non ancora ridotto a semplice vestigia strumentale di un passato ormai scomparso.
Queste opere sono una critica a qualcosa che continua a esistere e sono in grado di trarre linfa vitale proprio dalla polarità che cercano di distruggere o quanto meno contrastare, criticare, commentare. Che il loro antagonista sia un canone estetico, una consuetudine morale, una tradizione, una religione, un costume diffuso o semplicemente una certa pigrizia acquisita nel guardare alle cose, queste opere si alimentano, come in una mossa ben eseguita di un’arte marziale, della forza della tradizione strutturata e stratificata rispetto alla quale si pongono in contrasto. C’è, cioè, una tensione e una sorta di travaso di energia per cui la critica vive anche della forza che scorre nel suo obiettivo polemico.
Da un certo momento in poi però nulla di tutto questo accade più – il totem è stato abbattuto – e quello che lo sostituisce non è il fiorire intenso e inarrestabile di una nuova tradizione, di una nuova estetica, di una nuova poetica, ma la sua destrutturazione pressoché totale: si giunge insomma a una sorta di zero assoluto. Ed ecco il segno che non parla, l’incomunicabile che non nasconde abissi ma soltanto rumore bianco, insipienza, impossibilità e il rifiuto radicale di porre nuove fondamenta. Gli esempi di opere mute, di nulla confezionato nel nulla, sono numerosissimi nell’arte del Novecento.
Al Moderna Museet è in mostra, fra i tanti, anche un esponente della categoria con una storia piuttosto particolare: Robert Ryman. Musicista jazz semiprofessionista, Ryman lavorava come custode al MoMA di New York per pagarsi l’affitto, quando un giorno gli venne l’idea di mettersi a dipingere a sua volta. Dipingere si fa per dire: tutti i quadri di Ryman sono bianchi, da bianchi completi – come il quadro esposto al Museet – a bianchi con tracce di materia, abbozzi di segni, contaminazioni di cornici o labili tracce di altri colori: sostanzialmente tutte variazioni dello stesso non-dipinto. Ryman sposò una curatrice ed ebbe poi una carriera da artista senz’altro più rilevante di quella che aveva avuto come musicista, e questo gli permise di abbandonare il lavoro di custode. Nei confronti di una persona come Ryman si fa fatica a non provare una certa simpatia, ma il vuoto, anche quando si fa supercazzola alla Amici miei di Monicelli, è sempre una condizione transitoria.
La natura lo aborre e prova a ricostruire per vie laterali quando quelle principali non sono percorribili: il bisogno di fondazione s’infiltra come acqua nelle intercapedini del nulla. Nelle collezioni più recenti del Museet, quelle degli ultimi decenni, il vuoto lasciato da un’arte senza tecnica, senza stridore, senza visione, viene riempito da altre forme, le forme immaginarie di un’oppressione universale, inemendabile e tentacolare, tanto da parere l’incubo di un bambino. Vicino ai grandi artisti della distruzione, della critica, del dubbio, sono raccolte le opere di artisti il cui merito maggiore è quello di essere vittime nel grande schema di questo sogno infantile. Non c’è tensione di alcun tipo nelle loro opere ma non serve: sempre di più è il loro status che li conchiude e li definisce in toto. Ciò che conta nella loro selezione, nell’avanzare delle loro carriere, è il segno vittimario che indossano, l’opera in sé è poco più di un orpello la cui inconsistenza può diventare anzi motivo d’orgoglio nella misura in cui la presunta vittima riesce a imporsi alla ribalta cionostante. Male che vada, nel caso cioè emerga un inattuale reflusso di critica, l’inconsistenza dell’opera si potrà sempre imputare all’azione negativa degli oppressori. Che questa oppressione sia universale e insovvertibile ma al tempo stesso del tutto assente dal mondo dell’arte e della cultura, dove a dominare in maniera pressoché assoluta sono gli assunti ideologici esattamente contrari, è uno di quei dogmi autocontraddittori che è necessario accettare come atto di fede, una ginnastica mentale alla stregua del 2+2=5 di orwelliana memoria. L’arte in ogni caso passa in secondo piano: siamo di fronte a una rifondazione etica, al battito d’ala d’una fenice morale ed è questo quello che conta.
Questa rinascita di un tribalismo morale che prova a sostituirsi al vuoto assoluto del nichilismo novecentesco non riguarda solo il mondo dell’arte, che, come sempre, si limita a trasfigurare e rielaborare le pulsioni, le mode e i valori che si sviluppano in quelle élite culturali che la validano e ne delimitano il perimetro. Dal punto di visto sociale il cambiamento nasce dalla ricezione avvenuta alcuni decenni fa nei dipartimenti universitari anglosassoni della lezione del poststrutturalismo francese, dei filosofi neomarxisti Foucault e Derrida e della loro idea che nel mondo del nichilismo ogni forma d’ordine e ogni gerarchia non siano nient’altro che l’espressione di un potere arbitrario e predatorio.
È una visione delle cose molto limitata, a tratti caricaturale, che però dai campus universitari è filtrata nell’arte e ha raggiunto infine la società civile anche grazie al fatto che ben si sposa con gli attuali mezzi di comunicazione digitale e con la loro tendenza a incentivare un racconto binario (bianco/nero, vittima/oppressore) del mondo. Un ecosistema informativo in cui è molto difficile far notare che le gerarchie sono in realtà dei sistemi multivariabile: all’interno di una gerarchia, per esempio, sono effettivamente possibili delle dinamiche discriminatorie così come però un ruolo importante, e tradizionalmente ignorato, è sempre giocato dal caso. Soprattutto, in una società liberale funzionante la variabile più importante nella costituzione di una gerarchia rimane quella della competenza. Da chi vorreste essere operati: dal miglior chirurgo o da quello più “inclusivo”?
Non a caso un dilemma molto simile a quello che venne mosso come critica ai movimenti populisti digitali quando ai loro albori mettevano in radicale discussione il valore della competenza: preferisci il chirurgo bravo o quello votato su internet? In Italia questa pulsione al qualunquismo fu incarnata dallo slogan “Uno vale uno” del Movimento 5 Stelle. Quello poststrutturalista – che fuori dai campus prende le forme religiose del settarismo cosiddetto woke – è un attacco analogo alla competenza, questa volta sferrato però non dalle fasce popolari ma da quelle borghesi colte o semicolte.
Nella realtà la vita umana non conosce solo dinamiche di potere ma anche amore, empatia, amicizia, stima, competenza, capacità, tutte cose ignorate dai woke che ovunque si voltino vedono soltanto categorie identitarie e una conseguente oppressione sistemica. Che dire poi delle intersezioni fra insiemi? È davvero sostenibile l’idea che una donna lesbica con alcuni milioni di euro di patrimonio che vive nel centro di una grande città debba affrontare nella vita più difficoltà di un fattorino di Amazon maschio, bianco e etero che vive in periferia e magari dorme in macchina perché è divorziato e dopo aver saldato gli alimenti non ha abbastanza soldi per pagare un affitto? Il credo woke non teme il ridicolo (sentimento mediamente più diffuso nelle classi popolari) e deve tanta parte del suo successo presso i ceti agiati anche all’essere uno straordinario stratagemma per il vittimismo borghese.
Allo stesso tempo il poststrutturalismo francese deve il suo successo nelle accademie anglosassoni all’essere una forma di neomarxismo perfettamente compatibile con il capitalismo grazie al fatto che sposta il conflitto dalle classi sociali alle abitudini sessuali o alle appartenenze etniche. Non solo si può tranquillamente essere ricchi e woke ma, nella misura in cui viene accettato una sorta di woke washing della comunicazione e del marketing, il Capitale può continuare a operare in forme e modi che generano anche più diseguaglianza di prima. Ottiene, anzi, una esplicita benedizione. Il felice matrimonio fra woke e industria dell’alta moda è la dimostrazione più lampante di questa tendenza.
Nella realtà il ventaglio di possibilità che riguarda la vita degli esseri umani è molto più ampio del dualismo oppressione/ dominanza e lo è sia in positivo che in negativo: senza con questo volerli negare in toto, solo una parte minoritaria dei problemi che una persona si trova ad affrontare oggi in Occidente sono attribuibili alle discriminazioni di gruppo, una parte ben più consistente deriva dal fatto che la vita umana è, di per sé, difficile e drammatica, un dato di fatto che il woke – ideologia figlia del nichilismo almeno quanto è figlia di un’abbondanza materiale senza precedenti – rifiuta in blocco, attribuendo ogni ostacolo all’influsso pernicioso delle persecuzioni sistemiche. Naturalmente questo comporta anche una rinuncia al concetto di responsabilità personale, ancora una volta, come accade anche presso i populisti digitali, i colpevoli sono gli altri.
Questo genere di esternalizzazione è catartica ma in ultima analisi anche razzista e sessista: tutta la complessità dell’esperienza umana viene ridotta all’appartenenza a questa o quella categoria di presunte vittime o carnefici (bianco, nero, donna, trans eccetera), un approccio che è la più subdola e insidiosa fra le forme di razzismo, perché il tribalismo e la discriminazione si coprono con le pelli del loro contrario, si ammantano di valori che in realtà rinnegano. In questo sta tanta parte dell’insidiosità del culto woke.
Permane però forte anche il substrato nichilista, perché un credo del genere spersonalizza e deindividualizza i singoli esseri umani, assolutizzando l’identificazione tra l’individuo e una tribù impegnata in un gioco di potere che si svolge all’interno del vuoto valoriale più spinto. Truismi abituali come “Non esiste razzismo all’incontrario” o “Le donne hanno subìto a lungo, ora subiscano gli uomini”, tradiscono la desertificazione morale e il rifiuto di regole del gioco condivise, caratteristiche tipiche di un contesto di nichilismo assoluto. È in realtà evidente come un razzismo sia sempre un razzismo, così come un’ingiustizia sia un’ingiustizia, non cambia le cose il fatto che qualcuno decida di considerarla compensativa. Negarlo significa mettere il successo nella lotta della propria tribù sopra il merito delle cose o rifiutarsi di vedere come la vendetta sia una spirale senza fine, il che è, per l’appunto, tipico del tribalismo.
Non è quindi solo questa visione bambinesca della storia – ridotta a una scelta binaria e manichea fra buoni e cattivi – a colpire, ma anche il rifiuto di un terreno comune su cui provare a costruire una società sostenibile per tutti: la fine, in sostanza del sogno illuminista a favore del ritorno alla centralità partigiana della tribù. Tipico della tribù è anche il chiedere ai suoi membri di ignorare la realtà quando non combacia con la propria ideologia, in una sorta di prova di fede, di appartenenza al gruppo. In altri termini il dato di realtà è sempre meno importante dell’aderenza alla dottrina tribale.
Altra caratteristica tipica del tribalismo che ritroviamo nei woke è il considerare perfettamente normali le condanne sommarie e comminate a furor di popolo (in questo caso digitale), in altre parole il rifiuto della presunzione di innocenza e del diritto dell’accusato a un giusto processo, una tendenza che è diventata esplicita a livello globale con il movimento #metoo. Istituti del genere sono infatti molto successivi all’età tribale e vengono persi in quella sorta di salto a ritroso nel tempo che la civiltà compie aderendo al culto woke.
Questa disgregazione dell’impianto illuminista se guardata più da vicino è per l’appunto la stessa disgregazione e rinascita che si osserva nel susseguirsi delle opere d’arte nelle stanze del Moderna Museet di Stoccolma. Una rinascita morale, sì, ma una morale tribale e atavica, una sorta di ritorno della società alle sue origini precivili, senza però neppure il conforto di una tradizione codificata e stratificata per mitigare le forme più estreme di entropia e di violenza che contraddistinguono la natura umana, visto che i woke rifiutano ogni valore insito nella Storia, che per loro è solo un unico blocco di oppressione sessista e razzista. Naturalmente questo non impedisce ai woke di utilizzare social network e smartphone, prendere auto e aerei, farsi curare negli ospedali, vivere in appartamenti riscaldati dentro grandi città, tutte cose create da quello che loro chiamerebbero patriarcato bianco e occidentale. Per definizione il wokismo butta il bambino con l’acqua sporca, o almeno lo fa a parole.
Jordan B. Peterson, il più colto e lucido fra i critici dell’ideologia woke, è stato il primo a notare come questo culto parareligioso sia divenuto estremamente popolare tra le fila dei figli dei baby boomer liberal, sia perché sono i più esposti all’indottrinamento poststrutturalista delle accademie anglosassoni, sia perché questi esponenti della classe media culturale occidentale in via di scomparsa – almeno dal punto di vista economico – sono spesso privi sia di una seria posizione socioeconomica che di una religione.
Cresciuti da genitori atei e benestanti nell’idea che la soddisfazione del desiderio e la ricerca della felicità fossero l’unica cosa che conta, si ritrovano spesso con risorse limitate in maniera grottesca rispetto all’ampiezza delle loro aspettative e sono oltretutto afflitti da un radicale senso di colpa per una vita vissuta sui patrimoni ereditati.
Questo è particolarmente vero per la classe media culturale che ha visto le retribuzioni ridursi radicalmente nel passaggio dell’economia dell’attenzione da media di massa tradizionali (tv, giornali, editoria) a quelli digitali, con un enorme travaso di ricchezza dai produttori di contenuti alle piattaforme digitali monopoliste e un cambio radicale delle professioni redditizie all’interno del settore (per esempio da giornalista a YouTuber). Una porzione della popolazione che ha quindi delle caratteristiche socioculturali perfette per il diffondersi di frustrazione e risentimento e per il conseguente fiorire del fanatismo woke, un fenomeno che se non altro ha il pregio di fornire ai suoi adepti delle mappe morali, una prospettiva di senso, per quanto con forti tratti persecutori e un’intensa pulsione autolesionista.
Il risultato paradossale è che oggi questa fascia di persone che è stata estromessa dalla classe media e rappresenta il presente di un Occidente minacciato dalle potenze emergenti, sembra avere come prima preoccupazione politica un patriarcato ormai inesistente. Combatte un fantasma, ma un fantasma che regala un senso, un’appartenenza, una prospettiva, per quanto deleteria.
Il woke è un credo distruttivo non solo perché riporta indietro le lancette della civiltà al tribalismo e costringe i suoi adepti dentro i confini decisamente ridotti del suo bias di conferma, ma anche perché è una benedizione per gli incompetenti: non serve studiare, non serve affrontare la complessità e le sfumature della condizione umana, aderendo al culto si ottiene una risposta univoca, buona per ogni dilemma. Non conta che sia sbagliata, il ricatto morale farà il resto. In questo scenario sono la giusta identità di gruppo e l’esibizione del segno vittimario ad agevolare le carriere, non le competenze.
Perfettamente esemplificativa di questa disgregazione ormai piuttosto avanzata del logos occidentale è la truffa messa in piedi nel 2018 da tre ricercatori universitari: Helen Pluckrose, James A. Lindsay e Peter Boghossian. Gli autori sono riusciti in poco tempo a redigere e a far pubblicare su riviste accademiche alcuni articoli del tutto deliranti, oltre che completamente inventati. Come hanno fatto? Li hanno riempiti di tesi che aderivano – seppur in maniera grottesca – all’ideologia woke dominante. Ecco le parole degli autori della truffa:
Cosa sarebbe successo se avessimo sostenuto in un paper che, per prevenire la cultura dello stupro, gli uomini dovrebbero essere addestrati come si fa con i cani? In questo modo è nata la finta ricerca Dog Park. E se avessimo scritto in un paper che quando un uomo si masturba pensando a una donna (senza il suo consenso e in realtà senza che lei lo sappia mai) sta commettendo violenza sessuale nei suoi confronti? Questo ci ha dato la finta ricerca Masturbation.
E se avessimo sostenuto che una superintelligenza artificiale sarebbe potenzialmente pericolosa perché programmata – attraverso il Frankenstein di Mary Shelley e la psicoanalisi lacaniana – per essere maschilista e imperialista? Questo è il nostro Feminist AI. E cosa sarebbe successo se, partendo dal presupposto che “un corpo grasso è un corpo legittimo”, avessimo introdotto il “bodybuilding per ciccioni” come categoria sportiva? Ora potete leggere come questo paper sia stato pubblicato su “Fat Studies”.
In altri casi abbiamo studiato gli “studi del risentimento” già esistenti per vedere cosa non funzionava e provare ad amplificare ulteriormente quei problemi. Troviamo un paper intitolato Glaciologia femminista? Nessun problema, lo copiamo e scriviamo un paper di astronomia femminista sostenendo che l’astrologia femminista e queer dovrebbero essere considerate parte dell’astronomia, un campo di studi che ad ogni buon conto è intrinsecamente sessista. I revisori della rivista si rivelano assolutamente entusiasti dell’idea.
E perché non usare un metodo come l’analisi tematica per agevolare letture faziose dei dati? Bene, abbiamo scritto un paper sui trans sul posto di lavoro che fa esattamente questo. Siamo riusciti a pubblicare anche una finta ricerca che si può sintetizzare così: “Un ricercatore di questioni di genere va da Hooters1 per cercare di capire perché esiste”. [...] La nostra ricerca Dildos dà invece una risposta alla domanda “Perché gli uomini etero non si masturbano attraverso penetrazioni anali e cosa succederebbe se lo facessero?”. Un indizio: secondo il nostro paper pubblicato su “Sexuality ad Culture”, un giornale leader negli studi sessuali, diventerebbero meno transfobici e più femministi. [...]
Un’altra esperienza significativa per noi fu chiederci: chissà se accetterebbero una riscrittura femminista di un capitolo del Mein Kampf di Hitler? La risposta a questa domanda si è dimostrata essere “sì”, visto che il giornale di femminismo sociale “Affilia” lo ha appena accettato.
Andando avanti ci siamo resi conto che grossomodo si può riuscire a far pubblicare qualsiasi cosa, basta che ricada nell’ortodossia morale e dimostri la conoscenza della letteratura scientifica preesistente.2
In uno dei paper gli autori sostengono che il pene maschile non sia una realtà biologica ma un costrutto sociale figlio della mascolinità tossica, risultato: pubblicato su “Cogent social sciences”.
Ci sarebbe da ridere se la situazione non fosse drammatica e se le pubblicazioni su quelle riviste non contribuissero in maniera determinante alle carriere dei professori universitari che formano gli studenti del presente e del futuro prossimo.
Un grado di corruzione ideologica così profondo non può che mettere in dubbio l’intero settore dei social studies anglosassoni, specie considerato che alla truffa non sono seguiti un mea culpa e una presa di provvedimenti da parte del mondo accademico ma un pesante e lungo attacco ad hominem contro gli autori, a cui si è tentato in tutti i modi di rendere la vita impossibile. Peter Boghossian si è recentemente dimesso dal suo incarico dopo che, in seguito alla hoax, le autorità accademiche hanno perseguitato lui e la sua famiglia per anni.
Tutto questo è drammatico anche perché ogni giorno nella sfera dell’opinione pubblica assistiamo a linciaggi le cui basi ideologiche ricordano esattamente le tesi dei deliranti paper della truffa di Boghossian e soci. Basti pensare agli attacchi degli attivisti trans alla scrittrice J.K. Rowling colpevole di aver sostenuto l’ovvietà assoluta che i sessi naturali sono soltanto due. Oppure si pensi all’attacco di Michela Murgia a Roberto Benigni colpevole di aver detto “grazie” a sua moglie durante una premiazione. Una delle caratteristiche delle ideologie totalitarie come il wokismo è infatti quella di mettere le persone in una situazione kafkiana per cui qualsiasi cosa facciano o dicano hanno sempre e comunque torto. Il gioco linguistico è truccato in partenza.
La centralità del dispositivo della censura è esplicitato dall’ondata di cancel culture che ha colpito il mondo occidentale, dall’omologazione dei prodotti culturali di massa e dal rifugiarsi in una neolingua ancora una volta orwelliana fatta di piccole follie, cortine fumogene (femminismo intersezionale), mere mistificazioni (inclusività a significare in realtà “esclusione” dei non ortodossi). Rifugiarsi in un linguaggio iniziatico, che nasconde i suoi significati dietro parole inventate, sigle e mistificazioni, sono pratiche tipiche di chi rifiuta il confronto.
La totale avversione al dibattito, la rabbia cieca nei confronti del pluralismo delle opinioni, il dipingere il nemico politico come l’inumano, il fascista, la Bestia, così come le reazioni irritate e censorie di fronte alla comicità e alla satira nascono sì da una presunta superiorità morale che si sente attaccata ma a un livello più profondo sono il segno di un’intuizione inconscia: il re è nudo, e non c’è nessun pericolo maggiore del bambino ingenuo che per primo lo dirà ad alta voce.
Emblematica da questo punto di vista l’intervista che qualche anno fa fece conoscere al grande pubblico il già citato Jordan B. Peterson. Per trenta ininterrotti minuti la giornalista inglese Cathy Newman provò a manipolare le dichiarazioni di Peterson continuando a mettergli in bocca parole che non aveva mai detto (né scritto, se è per quello) ma che rispondevano alla raffigurazione ideologica e caricaturale che lei aveva di lui. In pratica stava parlando a se stessa, tentando di usare Peterson come uno strumento per vincere la battaglia per la dominanza che lei vedeva nell’intervista. Un processo di spersonificazione di una disonestà intellettuale pressoché assoluta.
La Newman aveva naturalmente tutto il diritto di non essere d’accordo con le posizioni di Peterson, così come aveva quello di contestarle, ma non aveva affatto quello di travisarle al solo scopo di vincere il confronto. Nella tradizione di dibattito anglosassone esiste una pratica chiamata steel man, ovvero si chiede – in genere prima della chiusura di un dibattito – a uno dei due oratori di ricostruire con la maggiore precisione e onestà possibile le posizioni dell’avversario e poi si fa lo stesso con l’altro partecipante. Quando lo steel man viene eseguito con un’aderenza tale che l’altro oratore può riconoscere le sue idee nella ricostruzione altrui siamo di fronte a qualcosa di sublime, molto vicino al massimo di civiltà a cui possiamo ambire come esseri umani. Il contrario esatto dello steel man è lo straw man, ovvero il prendere le posizioni dell’avversario e torcerle a piacere con l’unico scopo non della ricerca della verità ma della vittoria nella tenzone. Lo straw man è invece uno dei punti più bassi della civiltà ed è la tecnica usata nella maggior parte delle occasioni nei talk show televisivi italiani e non solo.
Tornando a Peterson vs Newman, il tentativo maldestro di straw man totale della Newman è impressionante, specie considerata la pazienza e la calma olimpica con cui Peterson (che è uno psichiatra clinico, oltre che una persona molto più colta e intelligente della Newman) ha rispedito al mittente tutti i tentativi di manipolare il suo pensiero e ritorcerglielo contro – tentativi tutt’altro che sofisticati ma non per questo meno irritanti.
Mentre scrivo l’intervista su YouTube è stata vista 33 milioni di volte e ha dato origine all’esplosione di popolarità globale che ha avvicinato il pubblico ai libri, ai podcast e ai video delle lezioni universitarie di Peterson, rendendolo quello che il “New York Times” ha definito «l’intellettuale più influente della sua epoca». La Newman è rimasta chiusa nel suo bias di conferma definendo Peterson alt-right (cosa che lui non è nemmeno lontanamente) e invece di scusarsi per il comportamento non deontologico tenuto durante l’intervista ha insistito sull’aver ricevuto dopo l’intervista valanghe di «critiche maschiliste». La bolla combatte ostinatamente – e furbescamente – contro il merito delle cose, si nasconde dietro gli slogan.3
Tuttavia la vita delle Newman e dei Newman di questo mondo è una vita in fuga da se stessi: se mai avessero un momento di verità dovrebbero ammettere che hanno vissuto dentro una frode. Il potere del bias di conferma è in fondo soprattutto questo: più ci si addentra in un pensiero settario, per quanto folle, più aumenta il costo da pagare al momento dell’uscita. Molte persone rimangono vittime delle sette per tutta la vita proprio per questo motivo.
Per quante siano le persecuzioni che si possono abbattere su di lui, è perciò sempre molto meglio essere il bambino che vive in accordo con quello che vede piuttosto che il re che vive nel terrore che la sua menzogna esistenziale venga scoperta e, peggio ancora, ha il terrore di scoprila lui stesso.
La buona notizia è che basta capire questa profonda verità perché l’incubo distopico finisca in un attimo.
*Una catena di ristoranti il cui modello di business è basato sull’utilizzo di cameriere sexy.
H. Pluckrose, J.A. Lindsay, P. Boghossian, Academic Grievance Studies and the Corruption of Scholarship, in “Areo Magazine”, 2 ot- tobre 2018 (traduzione dell’autore). Per le vicende e gli articoli citati cfr. H. Wilson, Human reactions to rape culture and queer performativi- ty at urban dog parks in Portland, Oregon, in “Gender, Place & Cul- ture”, 27(2020), n. 2, pp. 307-326, disponibile all’indirizzo [tinyurl. com/2p8u9uj4]; R. Baldwin, Who are they to judge? Overcoming an- thropometry through fat bodybuilding, in “Fat Studies”, 7(2018), n. 3, pp. i-xiii, disponibile all’indirizzo [tinyurl.com/3nx5wtar]; M. Carey et al., Glaciers, gender, and science: A feminist glaciology framework for global environmental change research, in “Progress in Human Geog- raphy”, 40(2016), n. 6, pp. 770-793, disponibile all’indirizzo [tinyurl. com/3k44upjs]; L. McNeill, Aeon, The Constellations Are Sexist, in “The Atlantic”, 16 agosto 2016, disponibile all’indirizzo [tinyurl. com/3t8vw7ht], C.R. Matthews, Biology Ideology and Pastiche Hegemo- ny, in “Men and Masculinities”, 17(2014), n. 2, pp. 99-119, disponibile all’indirizzo [tinyurl.com/2p95a87t]; M. Smith, Going in Through the Back Door: Challenging Straight Male Homohysteria, Transhysteria, and Transphobia Through Receptive Penetrative Sex Toy Use, in “Sexuality & Culture”, 22(2018), n. 1542, disponibile all’indirizzo [tinyurl.com/2am- pdvbc].
Negli anni successivi, dopo una serie di vicissitudini sia private (un lungo coma e un ancora più lungo periodo di riabilitazione) che pubbliche (durissimi attacchi dai media liberal, la sospensione della sua licenza clinica in Canada per essersi espresso pubblicamente contro i le operazioni di cambio di sesso sui minorenni e la chiusura del suo account Twitter da parte della dirigenza woke pre-Musk), Jordan Peterson si è spostato in maniera più chiara verso l’universo politico conservatore, pur rimanendo comunque molto distante dalle posizioni che la Newman gli attribuiva nell’intervista citata.